Sul divano dello Psicoanalista
Come guarire dalla follia del collezionismo.
Ma chi vuole guarire ?
Il mio Analista mi scopre mentre sfoglio una rivista d’arte tutta dedicata a netsuke e guajian. Vuole saperne di più. Confesso : “Questi oggetti sono la mia passione”.
“Perfetto, dice lui. Cominciamo col risolvere questo problema.”
“Problema ?!? protesto io. Ma questa passione non è affatto un problema per me !”.
“Esatto : è proprio questo il problema.” diagnostica lui.
Arthur Mervyn Stockwood, vescovo anglicano di Southwark tra il 1959 e il 1980, scrisse : “Lo psichiatra è quel tipo di uomo che va alle Folies-Bergères e invece di guardare le ragazze guarda gli spettatori”.
Proprio come nel nostro caso : “Lo psichiatra è quella persona che invece di ammirare le stupende immagini di una rivista d’arte, guarda invece e analizza i Lettori della rivista”.
La tua follia è il mio businness
Questo noto psichiatra italiano, di cui non sono autorizzato a svelare il nome, legge sul Winter 2009 Issue dell’International Netsuke Society Journal il mio articolo sui guajian e in particolare si sofferma sul brano a pagina 30 :
Ho sempre pensato che ci fosse una vena di sana follia nel mondo dei Netsuke. Probabilmente un po’matti (simpaticamente paranoici) gli artigiani-artisti che li ideavano, intagliavano e firmavano (non sempre con il proprio nome).
Probabilmente un po’ matti (decisamente feticisti) gli uomini che li commissionavano,
si svenavano per acquistarli e poi orgogliosamente li esibivano.
Probabilmente soavemente folli gli appassionati che oggi, in un mondo di volgarità, stupidaggine e violenza, studiano collezionano accarezzano questi universi in miniatura, microsintesi di un’intera civiltà, squarci di profonda saggezza ed istanti di assoluto, non necessariamente casto, piacere.
La mia scherzosa e in fondo affettuosa diagnosi di ‘follia’ interessa molto lo psichiatra. Effettivamente ci sono pochi matti più matti dei medici dei matti.
Quanto segue è il punto di vista di uno psichiatra sulla valenza psicologica di netsuke e guajian. Ma più in generale sulla valenza psicologica degli oggetti protagonisti di ogni tipo di collezione. Forse nessuno aveva ancora affrontato la nostra folle passione per i netsuke con pensieri così folli. Merita ascoltarli.
Il collezionismo è una grave ‘malattia’.
Niente di nuovo. Già nel 1990 Sua Altezza Imperiale del Giappone, il Principe Norihito di Takamado scriveva : “La patologia provocata dal virus dei netsuke è davvero una grave malattia. Affonda vigorose radici profondamente nel cuore delle sue vittime; è incurabile persino con le terapie più aggressive; si è diffusa ed ha contagiato vittime in tutto il mondo” (testo scritto da Sua Altezza Imperiale come prefazione al volume ”Netsuke-Vita e leggende del Giappone in miniatura” di Edwin C. Symmes).
Niente di nuovo perciò nel diagnosticare il collezionismo come una grave patologia. Solo che qui e ora ci si sposta dalla Virologia alla Psicoanalisi, da “robuste radici nel profondo dei nostri cuori”ad ancor più vigorose radici che affondano in ancor più profonde profondità.
Contrappeso come contrappunto
Il mio Analista esordisce assai ragionevolmente : “Questi minuscoli oggetti – dice –
non «nascono per essere accarezzati» come scrivi romanticamente tu, ma piuttosto per fare da contrappeso a oggetti d’uso quotidiano (piccole borse, sacchetti per il tabacco, astucci per la pipa, bacchette per mangiare, acciarini, necessaires di vario tipo, ecc.) che venivano appesi alla fascia di tessuto (obi) portata in vita come cintura di abiti tradizionalmente senza tasche.
Con un pizzico di fantasia possiamo intendere non solo alla lettera, ma anche metaforicamente la loro funzione di ‘contrappeso’; quindi come antidoto (‘contro’) alle tensioni psichiche dell’essere umano (‘pesi’). Chi lo indossava usava forse anche sfiorare con i polpastrelli il proprio netsuke come un gesto di scarico, proprio perché il tatto a volte risolve la necessità di sciogliere nell’azione i flussi emotivi. A questo si devono la scelta di materiali lisci e piacevoli al tocco, la forma globale che invita alla carezza e quindi negli esemplari più antichi quella usura e quella patina che il contatto frequente con la pelle umana conferisce ai più ‘vissuti’ e più amati dei nostri netsuke.
E’ sesso con qualcuno che amo.
Il contatto fisico crea un legame anche psichico. Il contatto con un oggetto inanimato può rappresentare un sostituto di un altro legame, più maturo e complesso, con un altro essere vivente, riconosciuto come esterno e indipendente da sé. Quindi il contatto con un oggetto può anche sostituire, a volte, il contatto con una persona : l’incontro tra due sensibilità, tra due emozioni, tra due vite.
Nel piacere di accarezzare il proprio netsuke si può addirittura profilare la compensazione di una sessualità che non è abbastanza matura da condividere con un altro organismo percettivo i piaceri tattili. Li risolve invece in un rapporto solipsistico con un oggetto che considera in modo subconscio parte della rappresentazione del proprio sé. Woody Allen – citato più sopra nel titolo mentre definisce qualcosa che non si può qui citare – informava di aver fatto l’amore con una persona che stimava tantissimo: sé stesso.
Questa però è una visione estranea alla cultura orientale, che è al contrario fondata su un Sé interdipendente. Un Sé teso verso una totale immersione nell’Universale e nell’Assoluto, quello orientale, radicalmente contrapposto al Sé indipendente degli occidentali che più predispone questi ultimi alla stimolazione sensoriale.
Peraltro, la sottolineatura eccessiva del rapporto tattile trascura esattamente il cospicuo ruolo sociale di guajian e netsuke : veicolare all’altro da sé le proprie istanze, la propria immagine identitaria.
Così Lei sa chi sono io !
Indossare alla cintura, tenere tra le dita e mostrare agli altri la propria identità.
Un Orientale commissionava l’ideazione e la creazione di un netsuke o di un guajan in base al proprio gusto personale e per comunicare una propria identità, oltre naturalmente al contributo apotropaico e di felice auspicio che sperava di ricavare dall’oggetto, dalla materia in cui era scolpito e dall’immagine rappresentata con i suoi molteplici valori simbolici, spesso arricchiti da ulteriori letture (il ‘sottotesto’ delle più moderne teorie di sceneggiatura cinematografica) giocate su suoni simili di vocaboli diversi.
Resta quindi vero che guajian e netsuke riuniscono valenze psichiche – l’espressione della propria identità, la capacità apotropaica e il supporto tattile – strettamente tra loro intrecciate, com’è tipico della mente asiatica scevra dalle scissioni dicotomiche della razionalità occidentale.
‘Anicca’ sul Canal Grande
Ad un livello ancora più profondo le considerazioni più elementari riguardo al riflesso di un guajian o netsuke sulla mente umana suggeriscono anche una conseguenza della percezione subconscia della precarietà della condizione umana.
Queste istanze psichiche, questo struggente senso di impermanenza sono più evidenti in popolazioni nomadi o comunque pastorali, abituate a non godere della protezione e del conforto di una dimora fissa. Nomadi abituati e costretti a recare su di sé le proprie ricchezze e gli oggetti, di piccole dimensioni, destinati a proteggerli dalle pervasive forze occulte celate nell’ambiente naturale. Non sono tuttavia esenti da queste istanze psichiche profonde nemmeno civiltà stanziali come appunto quella cinese classica, essenzialmente agricola, quella giapponese e persino la nostra civiltà occidentale contemporanea.
Forse non ci si libera da queste istanze psichiche profonde neppure se si vive all’ombra di un albicocco in una mansarda sul Canal Grande, in un palazzo dell’11° secolo su Piazza del Campo a Siena, o infine in un appartamento sotto il quale corre la metropolitana che somiglia alla groppa di un serpente ctonio e dove i rapporti con i concittadini sono spesso conflittuali, come in un confronto di spazi interiori. Tutto ciò all’inconscio ricorda fin troppo la lotta per l’affermazione di sé in un’epoca dello sviluppo caratteriale antecedente il processo di differenziazione.
Il cammino della perfezione (Dhammapada XX.277)
L’emendamento e il superamento da oggetti transizionali come guajian e netsuke passa per una trasformazione profonda della percezione di se stessi e dell’universo. È quella trasformazione resa con evocativa incisività dalle parole di Sun Wu Kong, la scimmia divina protagonista del romanzo classico cinese “Viaggio in Occidente” : «Maestro mio, chi ha lasciato la casa ed è diventato un monaco deve cenare col vento e dimorare sull’acqua, sdraiarsi sotto la luna e dormire nella foresta. La sua casa è ovunque; allora perché chiedere dove riposeremo ?».
Altrettanto poeticamente, un Tibetano descrisse il Chang Tang, immenso deserto d’erba nel nord della sua terra, come “il luogo dove ti senti perduto finché non ti accorgi che è il cielo la tua tenda».
Insieme al mio Analista, auguro allora ai visitatori di questo sito e ai collezionisti di netsuke giapponesi e guajian cinesi che le dita della loro anima sfiorino il velo del cielo e accarezzino il volto di Dio.
Post Scriptum
Se chi legge questo testo ritiene che le considerazioni fin qui svolte
meritino quanto meno una visita di accertamento psichiatrico, lo prego di indirizzare l’ambulanza di Pronto Intervento Psichiatrico non al sottoscritto ma a Stefano Pernatsch.
Per parte mia ho aperto con una citazione e vorrei concludere queste riflessioni sul collezionismo con un pensiero di Steven Wright che trovo insieme lirico e geniale :
“Io ho la più grande collezione al mondo di conchiglie. La tengo esposta sulle spiagge di tutto il mondo”.
3
SE IO POTESSI …
“Se io potessi vivere nuovamente la mia vita, nella prossima cercherei di commettere più errori. Non tenterei di essere tanto perfetto, mi rilasserei di più, sarei più stolto di quello che sono stato; in verità prenderei poche cose sul serio. Correrei più rischi, viaggerei di più, scalerei più montagne, contemplerei più tramonti e attraverserei più fiumi; andrei in posti dove mai sono stato; avrei più problemi reali e meno problemi immaginari. Io sono stato una di quelle persone che vivono sensatamente, producendo ogni momento della vita. È chiaro che ho avuto momenti di allegria. Ma, se potessi tornare a vivere, cercherei di avere solamente momenti buoni. Perché di questo è fatta la vita, solo di momenti da non perdere. Io ero una di quelle persone che mai andava da qualche parte senza un termometro, una borsa d’acqua calda, un ombrello e un paracadute: se tornassi a vivere, viaggerei più leggero. Se io potessi tornare a vivere, comincerei ad andare scalzo all’inizio della primavera e continuerei così fino alla fine dell’autunno. Girerei più volte nella mia strada, contemplerei più aurore e giocherei di più con i bambini. Se avessi un’altra volta la vita davanti …; ma, vedete, ho ottantacinque anni e non ho un’altra possibilità”.
Jorge Luis Borges
Collezionare con intelligenza è una “follia” che ripara il lutto che crea. Vale a dire, contiene in sè la terapia procurata da quella sana follia.
Certo, quando l’oggetto sostituisce, sublima o nega la realtà o parti di essa, assurge ad a-priori ossessivo e pertanto ad una manifestazione patologica della nevrosi …a quel punto non parliamo più di “collezione”, bensì di “compulsione”.
Altrettanto nevrotico, però, è leggere ogni modalità di relazione col mondo quale risultato di azioni/reazioni delle pulsioni dell’inconscio.
Questo è ben più complesso di ogni sia pur raffinata rappresentazione immaginata, figuriamoci di una che lo riduce sostanzialmente ad un complesso idraulico di flussi e riflussi, pesi e contrappesi !
Collezionare , a mio modo di vedere, è una delle modalità in cui si esprime la creatività e l’intelligenza umana : non è accumulare e nemmeno esibire.
Per quello ci sono i “raccoglioni”, per questo i mitomani.
E questa follia, quella di capire ed amare la storia e la bellezza di un oggetto d’arte, è forse il ratto più bello perpretato dagli uomini agli Dei.
Elio
carissimo Franco
accetto volentieri l’invito a condividere pensieri ed emozioni suscitate dall’articolo sui “Chui-tzu”.
Scriveva cent’anni fa Rabindranath Tagore: “Io lascio ai miei cari le piccole cose; le grandi sono eredità di tutti”.
I netsuke sono piccole o grandi cose? Microcosmi immensi o inutili ninnoli per chi ha tempo da perdere?
Ma il tempo si può perdere? Come l’acqua che scorre non si perde, così si dice che il tempo scorra.
Ma dove va? Forse gira su se stesso e ritorna in cicli infiniti, forse precipita in un abisso.
Forse diventa denaro. Forse è solo l’illusione che ci tiene in vita e fa dimenticare la morte.
Forse un mantello tenuto fermo da un netsuke – o un chui-tzu – fatto di sogni e di pazienza.
Io me li figuro come una speranza di trattenere il Grande Mantello che ci copre fino alla Fine e ci protegge dai pensieri più grevi. Leggerezza dell’essere e del divenire. Illusione.
Netsuku vuol dire “addormentarsi”: to die, to sleep, to sleep perchance to dream ?
Carinissimo !
Non diventeremo troppo intellettuali ? Mi piace veramente !!
Dopo aver trascorso tutto ieri con i cinesi, materialisti
(“Quanto costa ? Quanto vale ? Puoi fare meno? L’ultimo prezzo ?”)
é bello poter riflettere su questo breve saggio che,
non so se produce lo stesso effetto su di te,
ma rilassa, come una specie di torpore…
Quel mantello che ti copre fino alla fine e ti protegge da pensieri più grevi.
Un giorno vorrei indossarlo.
Buona giornata
Roberto
Ciao, Franco come dice giustamente Gaggianesi “non diventiamo troppo intellettuali”, di’ al tuo dottore che anche alcuni animali raccolgono spesso oggetti che li attirano particolarmente, e prima di noi l’uomo preistorico collezionava conchiglie o sassolini colorati (vedi Uomo di Neandertal), quindi il collezionismo lo abbiamo nel ns. Dna e lui dovrebbe saperlo.
Dopo tutto c’è chi dice che senza una bella donna o senza un buon bicchiere di vino nella vita che cosa rimane ? Possiamo quindi anche noi aggiungere nell’elenco: “senza collezionare ciò che ci piace” , dopo tutto si vive una volta sola.
Franco