La grande bellissima tavola che apre “21 settembre 1943”
in realtà conclude anche il racconto. Tutto è silenzio, tutto è immobile.
Non una nuvola in cielo. Solo un volo di colombi o cornacchie.
Nessuno, nemmeno un uomo o una donna o un bambino.
Tutto deve ancora succedere. O tutto è già successo. Di nulla e di nessuno rimane, né rimarrà, traccia. Questa è la guerra : urla, spari, esplosioni, terrore, morte.
Morte e quindi silenzio.
Se un giorno, Pino, ti dedicherai alla seconda edizione di questo tuo ultimo bellissimo libro –
e spero che questo succeda davvero presto, a meno che non prevalga la disperante ottusità che si sente crescere tutto intorno a noi,
come una implacabile e inarrestabile ‘acqua alta’ nella magica città in cui vivo – se un giorno ti dedicherai ad una seconda edizione,
ti suggerirei di concludere il tuo racconto esattamente con la stessa grande tavola con cui tu e Francesco lo avete aperto.
Tutto è silenzio, tutto è immobile. Tutto deve ancora succedere. Tutto è già successo.
E tutto ancora succederà. Per un attimo però o per un secolo (chi lo sa) tutto tace
e il tuo racconto può ancora una volta iniziare e ancora una volta concludersi.
Mi ha spinto a suggerirti questa soluzione un testo che leggevo proprio ieri :
“I grandi esecutori riescono a tenere con i gesti il silenzio di mille, duemila persone.
Le ultime direzioni di Claudio Abbado erano impressionanti.
Alla fine di un’esecuzione riusciva a stare tre, anche quattro minuti senza fare volare
una mosca. Nei finali delle sinfonie teneva i musicisti senza respirare.
Invece nei primi anni, dopo l’ultima nota, si girava verso il pubblico con i capelli al vento
per accogliere gli applausi. Un po’ alla volta il momento del distacco è diventato sempre
più lungo. Il silenzio è un ambiente che un po’ alla volta diventa familiare.”
Concludere il tuo racconto esattamente con la stessa grande tavola con cui tu e Francesco
lo avete aperto avrebbe questo valore :
lasciar decantare le emozioni e far riassaporare a lungo e in silenzio il racconto appena terminato.
A scuola, come tutti, ci siamo dovuti sorbire, prima di poterle poi effettivamente gustare molti anni dopo, Iliade Odissea ed Eneide.
Dei tre (allora) mattoni, aggravati dalla insopportabile versione di Ippolito Pindemonte,
la meno simpatica mi è sempre stata l’Eneide.
Anni dopo però per l’esame di Latino all’università dovetti portare tutto Virgilio più tutto Seneca e tutto Tacito ad apertura di libro.
Ciò significa che con il mitico professor Cazzaniga non si poteva cazzeggiare : ti sedevi,
lui apriva a caso una pagina dell’opera omnia di uno dei tre autori e tu dovevi o ricordare la traduzione o improvvisarla.
Se non ce la facevi, o anche se ce la facevi ma al prof la tua versione non sembrava “bella abbastanza”,
ti alzavi e senza voto sul libretto passavi direttamente alla successiva sessione di esami qualche mese più avanti.
C’erano studentesse che avevano dato l’esame la prima volta ragazzine e tornavano poi
con due o tre figli, che noi in attesa facevamo giocare durante l’interrogazione spesso troppo breve della mammina.
Fu lì che cominciare a capire, se non proprio ad amare, l’Eneide.
E fu lì che incontrai la “pietas”.
Fino a quel momento, da cultore di film western e di Tex Willer, e anche dopo quel momento,
da spettatore che anticipa sottovoce le battute dei film di Peckinpah o Eastwood,
della pietas non me ne poteva importare di meno.
Però il tuo “21 settembre” me l’ha rievocata.
Però, complice anche l’età forse, il tuo “21 settembre” mi ha spinto ad ascoltarla.
Come una musica silenziosa che accompagna i diecimila versi di Virgilio e le tue 163 pagine.
Quella pietas che ti fa ricordare proprio alla fine i militari tedeschi (i ‘cattivissimi’ di questo racconto,
‘cattivo’ persino l’innocente soldato austriaco, studente di medicina, un ‘cattivo’ disarmato e inoffensivo nel salone da barba)
scrivendo : “il nostro ricordo va anche a loro”.
Sono partito dagli anni del liceo per dirti che pur tra mille violenze, spari, esplosioni
e tragiche ingiustissime morti (ingiuste sia da parte italiana che da parte tedesca),
nel tuo racconto si sente la musica silenziosa della pietas.
La pietas che accompagna il tuo “21 settembre 1943” è un sottofondo accorato,
malinconico ma non lamentoso. Non è un requiem, non c’è e non può esserci requie. E nemmeno perdono.
E’ la musica degli ultimi quartetti di Beethoven, è la pagina del vecchio al ponte di Hemingway, è l’apparente oggettività di Stendhal o Tolstoi.
E’ una musica virile e fiera delle proprie lacrime. Capace di riconoscere un estremo saluto e un ricordo
a tutti coloro che a Matera persero la vita il 21 settembre 1943. E anche a tutti coloro
che quel 21 settembre lo rivivono ancora nella propria memoria e nelle proprie emozioni di ogni giorno.
Sintesi di questo sentimento che vibra in tutte le pagine del tuo racconto è per me, Pino,
una tavola speciale tra le molte bellissime che hai creato per accompagnarci dalla prima all’ultima pagina.
E’ la quinta tavola di pagina 95.
La tavola viene dopo le straordinarie immagini dell’esplosione, dopo la tremenda apparizione
quando è calata la polvere dell’esplosione, dello scheletro dell’edificio, dopo i corpi maciullati, smembrati e ancora sanguinanti.
Ecco – capolavoro di pietas, indimenticabile musica silenziosa –
la mano del padre che stringe quella del figlio che era venuto a riportare a casa.
Non torneranno mai più casa però nell’ultimo istante si sono stretti uno all’altro.
E tu, Pino, che non c’eri, te ne sei accorto.
Mi manca nel finale quel silenzio di cui ti scrivevo all’inizio di queste righe.
Il respiro calmo del mare dopo la tempesta; il silenzio dopo il vento, i fulmini e i tuoni.
Persino, se vuoi, l’aria fresca e pulita e innocente dei vialetti di un vecchio cimitero.
Penso davvero che dopo le urla, gli spari, le raffiche dei mitra, le esplosioni, le imprecazioni
e le invocazioni delle ultime pagine, il tuo racconto e il tuo lettore abbiano bisogno
di un lungo silenzio, di un grande vuoto di immagini o di una grande immagine vuota di vita.
Solo apparentemente vuota di vita però perché in realtà la vita c’è,
i colombi o le cornacchie sono in volo, le pietre di Matera sono tiepide per il sole che le accarezza
e se non ci siamo noi, altri ci saranno. Forse.
Grazie, Pino. Grazie a te e a Francesco. Il “Grazie !” più grande e affettuoso
mi aspetto che te lo sappiano trasmettere i Materani tutti. Quelli di oggi,
perché quelli di ieri già ti stanno ringraziando
insieme a tuo padre Emilio che dall’alto ti guarda e come sempre ti sorride compiaciuto.
Avevo un dubbio scrivendo :
sono colombi o cornacchie o gazze o che altro
gli uccelli in volo sulla cattedrale ?
Ricevo : sono falchi grillai e rondini.
A Matera c’è la più grande colonia d’Italia di falchi grillai.
La città ne è molto fiera : sono bellissimi.
Grazie maestro!! onorato della tua bellissima recensione !