Capisco che un giocatore che da solo, senza che nessuno lo obblighi, confessa di aver fatto fallo, anche se l’arbitro non se n’era accorto, possa sembrare da ricoverare d’urgenza in TSO. Oggi un giocatore nega appassionatamente di avere massacrato l’avversario, anche se ha le mani ancora sporche di sangue. Anzi si lamenta con l’arbitro perché non sbatte fuori la vittima con il cartellino rosso (sangue) e i tifosi lo stimano proprio per questo suo cinismo. Ma nel mondo della “palla a canestro” (non ancora “pallacanestro” tuttattaccato e non ancora “basket” tu vuò fa’ l’americano), tempi diversi da quelli di oggi sono esistiti. Mi sembra giusto, o quanto meno piacevole (per me), rievocarli. Non aggiungo fotografie : non le metto per stimolare chi legge questi miei ricordi
a visualizzare i SUOI ricordi. Volti, nomi, luoghi, odori e rumori della sua infanzia e dei suoi giochi. Io mi innamorai della pallacanestro, ma fu per caso, come per caso succedono tutte le cose importanti della vita. Ma certo per me e per chi legge quelli dell’infanzia furono anni gioiosi e (spero) indimenticabili.
.. ai tempi che i genitori non solo non ti avevano mai visto giocare,
ma nemmeno sapevano in che squadra giocavi.
Vittorio Tracuzzi, uno dei più geniali giocatori di sempre, fu il mio primo allenatore, anzi Maestro. La Pallacanestro Varese fece la “Leva del 1950”.
Non so come e non so perché io mi iscrissi. Non certo spinto dai miei genitori, che di quello che io facessi non si sono mai (apparentemente) occupati. Non mi hanno mai visto giocare e non mi hanno nemmeno visto laurearmi : ero solo in Aula Magna alla Statale contro 5 professori 5, a prendermi con Musatti il mio 110-e-lode, senza corone d’alloro e cori sguaiati di parenti e amici.
Ricordo che Tracuzzi si dedicò a noi “allievi” le prime settimane per i “fondamentali” e ci affidò poi a Ciccio Zucchi. Scopro oggi un gesto molto bello di Tracuzzi : Ciccio era allora studente a Medicina e Tracuzzi gli promise una bella cifra per ogni 30 che avrebbe preso agli esami.
.. ai tempi che : Occhio alla palla o …… palla nell’occhio !
Tracuzzi (mai a Varese nessuno si azzardò a chiamarlo, come oggi leggo, “il Trac”. Non credo che chi l’avesse chiamato “Trac” persino nella sacra intimità dello spogliatoio, sarebbe poi sopravvissuto) ci metteva tutti in circolo attorno a lui.
Teneva un pallone in mano .. spiegava e mostrava come andava ricevuto e maneggiato .. i pollici allineati, le dita distese e non contratte … parlava e poi all’improvviso ti arrivava il pallone in faccia. Anche se lui ti stava voltando le spalle ! La lezione era : non devi MAI distrarti, devi sempre aspettarti un passaggio, quindi devi SEMPRE sapere dove è il pallone e se ti arriva in faccia e non tra le mani, è colpa tua.
Noi “allievi” vedevamo tutte le partite casalinghe a gratis dalla balconata della Palestra dei Pompieri e avevamo accesso persino agli spogliatoi nel dopo-partita per sentire i commenti a caldo dei nostri Dei.
.. ai tempi che Tracuzzi inventò la “rimessa rugby”.
Tu segni ? E io ti castigo !
Tracuzzi, allenatore, giocatore e capitano, ma soprattutto geniale creatore di gioco, aveva inventato uno schema efficacissimo : appena subìto un canestro Tracuzzi recuperava il pallone e senza nemmeno guardare lo lanciava attraverso tutto il campo sotto l’altro canestro …
.. là era già arrivato Gualco (non saprei dire come, forse partiva mentre il tiro degli avversari era ancora in aria) che prendeva il passaggio, si allontanava dal canestro lungo la linea di fondo, si avvitava su se stesso e segnava. Due tre volte per partita erano punti sicuri. Oltretutto erano punti umilianti : perché uno stava ancora festeggiando il canestro appena segnato e subito ne subiva un altro, molto più rapido, più facile, indifendibile : irridente. Una vera presa per il culo : “Tu hai bisogno di un’intera azione di gioco per farmi (forse) un canestro ? E io te lo faccio in 3-4 secondi !”.
Scopro oggi, dopo 70 anni, che questo geniale schema di gioco aveva un nome : Tracuzzi è ricordato nei sacri testi come l’inventore della “rimessa rugby”.
Peraltro il tiro in avvitamento era molto frequente allora : di Tracuzzi narrano delle entrate “a elica” (mai viste); Stefanini ci ha campato anni segnando sempre in avvitamento; Tonino Zorzi in entrata faceva questo e altro e non ho mai più visto nessuno restare in aria quanto lui finché non è arrivato Jordan.
.. ai tempi che a Varese persino il mitico Rubini aveva qualche problema.
Al plesso solare.
In quegli anni a Varese giocavano, chi prima chi poi, Alesini, Marelli, Bernasconi, Tonino Zorzi, Cerioni, Nesti, Forastieri, Gualco, Turolla, Virginio “Ciccio” Zucchi e Tracuzzi.
C’era una feroce rivalità con il Borletti. A Milano giocavano Rubini, allenatore, giocatore e capitano, abituato dalla pallanuoto ai colpi bassi sotto il pelo dell’acqua, Gamba, Stefanini, Sforza (uno spilungone stempiato che tirava da fuori a due mani sopra la testa), Reina, Romanutti (implacabile dall’angolo), il cattivissimo Pagani che Dennis Rodman arriverà solo decenni dopo. Ricky fu anche romantico e dolce protagonista de “I sogni nel cassetto”, un film di Renato Castellani. Molto meno romantico e dolce era però Ricky sotto canestro.
Dice di lui Gamba : “Con Ricky, il ‘cinese’, abbiamo formato una coppia di guardie formidabili, ancora prima che arrivasse Pieri. Allora, si giocava spesso con tre guardie, la gioventù non era ancora ben nutrita come le generazioni del dopoguerra e noi eravamo dei difensori arrabbiati. I nostri avversari, se riuscivano a penetrare una volta, ci pensavano a lungo prima di farlo ancora”.
Posso capire le riflessioni di chi aveva tentato una volta un’entrata a canestro in quella
selva di mani, braccia e soprattutto gomiti. Solo Zorzi ci si divertiva, ma lui volava
sopra a mani, braccia e gomiti.
A Varese i match con il Borletti erano, diciamo così, “molto sentiti”.
Si menavano come ossessi. Di là le ‘scarpette rosse’, di qua i “nostri”,
fisicamente meno attrezzati, ma altrettanto avvelenati.
.. ai tempi in cui scoprii la fondamentale differenza
tra il tiro in sospensione e il tiro al sospensorio.
In campo Tracuzzi poteva (se necessario) essere anche feroce : ricordo
che per merito suo scopersi che cos’era “il plesso solare”.
In uno degli infuocati match con il Borletti, Tracuzzi non per caso
e non per sbaglio rifilò una ginocchiata nei ‘cabasisi’ (avrebbe detto Camilleri)
a Rubini, che fu portato dolorante fuori campo.
“La Prealpina” in cronaca sportiva il giorno dopo scrisse di “colpo al plesso solare”.
Noi ne fummo orgogliosi, perché detto così sembrava molto più nobile e sportivo
di una ginocchiata dove (allora si portava il sospensorio) fa comunque molto male.
Quella volta noi dalla balconata si cantò a lungo “Cata sù e port’a cà”.
… ai tempi che Tracuzzi passò dalla ‘melina’ al “melone”.
Tu vinci ? E io ti rovino la vittoria !
Non c’era ancora la regola per cui la squadra che ha la palla deve tirare entro 30 secondi
(da noi diventati 24” solo nel 2004). Chi aveva la palla, faceva quello che voleva
e se non voleva tirare, non tirava per quanto tempo voleva.
Cito da Virtuspedia https://www.virtuspedia.it/sala-borsa/
Un anno venuto a Bologna alla guida del suo Varese, Tracuzzi pensò che non era giusto perdere quella partita. Allora guidò la “melina” della sua quadra non per qualche secondo in più, ma per gli interi ultimi cinque minuti ! La Sala Borsa era una bolgia, un inferno : ma lui serafico e irridente palleggiava, passava la palla, la faceva girare e nessuno tirava. Altro che “melina” : quello fu un melone bello, grosso e anche un po’ fracido, gentilmente spiaccicato in faccia ai vincitori.
Quel melone parlava e diceva :
“Perdo, ma non perché avete vinto voi : perché sono io a volerlo”.
.. ai tempi che la classe era classe. Al tavolo verde e anche al verde.
Tracuzzi era per tutti noi un mito anche fuori campo. Trascorreva i pomeriggi, prima degli allenamenti, nel bar sotto i Piccoli Portici in Piazza. Forse era il “Caffè Pini” con una saletta riservata al primo piano. Lì giocava a carte per ore, presumo perdendo più di quanto fosse lecito perdere, poi andava a giocare e allenare.
E vestiva da “Nisca”. “Nisca” è in assoluto il negozio di abbigliamento maschile più elegante di cui io abbia mai visto le vetrine (entrarci non era cosa neppure per mio padre, che pure era il Medico Provinciale e quindi un’autorità in città). “Nisca” aveva una classe che ho poi trovato solo da ‘Schostal’ sotto i Portici a Bologna, da ‘Marinella’ a Napoli e immagino debba avere avuto “Zanobetti” a Firenze, se è mai esistito e se è lì che in “Amici miei” il conte Mascetti acquista il “cashmirino” che pagherà però a rate.
.. ai tempi che un ragazzino aveva come coach un mito. Anzi, due !
Quando ho lasciato Varese, mio papà promosso Medico Provinciale a Milano, sono finito al CUS Milano. Ci si allenava alla Casa dello Studente di viale Romagna : capitava di “fare due tiri” con Tony Flokas, allora studente poi giocatore a Varese; con Riminucci, chiamato (solo alle spalle però) “Marisa”; e purtroppo raramente persino con Rosannina Armani, adorabile, che quando pur di ‘fare partita’ si giocava maschi e femmine insieme, ognuno di noi avrebbe voluto ‘curare a uomo’.
Allenatore ufficiale del CUS Milano per il campionato Juniores era Elliott Van Zandt, lo stesso che aveva allenato Tracuzzi alle sue prime convocazioni in nazionale. Ero così passato, senza saperlo dal mitico coach Tracuzzi al mitico coach nero Van Zandt.
…. ai tempi che per un passaggio dietro la schiena rischiavi la vita.
Van Zand tuonava “E’colo !” approvando quando facevi una cosa giusta; ruggiva suoni irriferibili quando azzardavo passaggi dietro la schiena (che però, grazie all’intuito felino di Mario Accorrà, sempre mi riuscivano) e mi assegnò la medaglia d’oro “MVP” nel famoso campionato in cui noi non si vinse nemmeno una partita, ma giocai da dio facendo segnare all’unico nostro lungo, “Sergino” centinaia di punti. Molti assist, memore della “rimessa rugby” di Tracuzzi, direttamente da rimessa laterale.
.. ai tempi come al liceo : fai alla grande la prima interrogazione
e poi ci vivi di rendita tutto l’anno. Idem sotto canestro.
All’inizio di ogni campionato, al primo allenamento io stupivo compagni e allenatore.
Ero in forma strepitosa e il segreto delle mia forma era che i miei genitori
avevano inventato lo “sbolognamento”.
I nonni materni vivevano a Bologna e tutte le vacanze natalizie, tutte le pasquali e due-tre mesi estivi io ero alla lettera “sbolognato”.
.. ai tempi che a Bologna si giocava sulle piastrelle della ‘Sala Borsa’
e a Venezia tra le colonne del Sansovino alla Misericordia.
Bologna, “Basket City”, era allora il tempio della pallacanestro con ben due, poi tre squadre in Serie A e un campo da gioco a pochi centimetri da Piazza Maggiore : la mitica “Sala Borsa”. D’estate ovviamente la Sala Borsa non era agibile per i cestisti perché funzionava come cuore finanziario dell’intera regione e quindi tutta la Virtus si allenava allo Stadio del Bologna Football Club.
Lì mi feci accettare, insieme ai gemelli triestini Selleri, e lì passavo settimane di basket full immersion insieme alla prima squadra della Virtus. Di loro ricordo Ranuzzi, piccolo come me, grande play.
.. ai tempi che il mio Imperativo Categorico era :
“O 15 dentro, tutti di fila, o si salta il pranzo.”
Ogni giorno, finito l’allenamento dei ‘grandi’ e con il campo ormai deserto,tutto per me, il mio personalissimo impegno era : non vai a casa se prima non hai segnato 15 tiri liberi consecutivi. Metterne dentro15 senza sbagliarne uno, e dovendo per di più dopo ogni tiro andare da solo a raccogliere il pallone e ritornare in lunetta, non era poi così facile. A volte sbagliavi proprio l’ultimo tiro e dovevi ricominciare tutto daccapo. Comunque magari un po’ in ritardo, ma a pranzo a casa dai nonni ci sono sempre arrivato
.. ai tempi prima di scoprire università, lavoro con stipendio e … le ragazze !
Dopo i mesi estivi con la Virtus, quando a Milano riprendevano gli allenamenti,
in mezzo ai compagni arrugginiti io risplendevo.
Questo show di inizio campionato aveva il potere di entusiasmare l’allenatore
(ero finito al “Làmber Basket Club”) e mi permise gli ultimi anni di saltare molti allenamenti, di essere esentato dalla “ginnastica” pre-allenamento e di mantenere il posto fisso in quintetto-base. Fino a che … fino a che arrivò il momento in cui fu chiaro che dovevo smettere : iscritto all’Università, assunto con regolare stipendio come copywriter in CPV, la più grande Agenzia Pubblicitaria italiana, avendo scoperto che con le ragazze ci si poteva persino provare ….. per il basket non c’era più posto.
… ai tempi in cui per farti un complimento un bimbo ti distrugge.
Anni, molti anni dopo, su un campetto deserto dove, trovato un pallone, facevo alcuni tiri
e persino alcune acrobatiche entrate a canestro in totale assenza di avversari,
un bambino mi guardò in silenzio per una decina di minuti.
Poi quando il pallone rotolò dalle sue parti e io mi avvicinai a lui per recuperarlo,
lui prese coraggio e timidamente mi chiese : “Ma Lei… Lei da giovane… giocava ?”.
Da giovane ?!?
Quel giorno mi sentii per la prima volta vecchio.
.. ai tempi in cui il “play” si chiamava “regista”.
Un altro bel ricordo del mio passato di play-maker fu l’incontro in corso Buenos Aires
con Spotorno, un gran bel giocatore che avevo avuto avversario nei 3 campionati studenteschi vinti uno in fila all’altro. Spotorno era più giovane di me, lui giocava ancora
e incontrandomi per strada, senza nemmeno che si fosse iniziato a parlare di basket, disse : “Peccato, Franco, che tu non ci sei più. Nessuno sa farli giocare come facevi tu.”
Quel giorno sentii che ero stato, in questo, solo in questo, piuttosto bravo. Oggi,
ormai nei pressi del capolinea, posso dirlo :
in tutta la mia vita giocare a pallacanestro è la cosa che ho fatto meglio.
.. ai tempi in cui una squadra perdeva – ammirata da pubblico, avversari
e persino arbitri – tutte le partite di un intero campionato. Con onore.
Nel 1958 Van Zandt diventò preparatore atletico del Milan e al CUS Milano subentrò un tecnico, appena tornato a Milano dagli Stati Uniti.
Riva (non ricordo il nome) era preparatissimo e molto rigoroso : ci mise un intero anno ad insegnarci una difesa zona-uomo, del tutto inedita allora in Italia anche in Serie A e molto complicata da memorizzare, perché ognuno doveva fare praticamente tutto. . .
Quell’anno finimmo l’intero campionato senza vincere una sola partita, l’anno successivo vincemmo lo scudetto.
.. ai tempi che certe zone del campo erano molto più pericolose
di certe zone di periferia.
Ogni anno, terminato il campionato regolare e iniziate le vacanze, per chi rimaneva
a Milano c’erano i tornei estivi. Il torneo estivo dovevi farlo, quantomeno dovevi provarci. Sennò non eri un vero giocatore. Un po’ come i playground USA.
Noi “signorini”, coccolati nelle squadre della Serie A, con la tuta, due magliette diverse, pantaloncini, scarpe, calze e il borsone griffati, incontravamo squadre composte da giocatori che avrebbero potuto essere nostri padri, alcuni con le scarpe dalle suole di para
e le ginocchiere per i reumatismi.
Noi eravamo abituati bene – nei campionati regolari della FIP, si giocava per limiti di età :
fino ai 15 anni negli “Allievi”, fino ai 18 “Juniores”, poi per i migliori c’era la “Prima divisione” o le squadre giovanili dei grandi club. Giocavi sempre comunque con coetanei.
Nei tornei estivi invece giocavano tutti, non c’erano limiti di età. Le squadre si mettevano insieme riunendo quelli che trovavi in città, che non erano in vacanza, a volte anche giocatori delle serie maggiori e poi ex-giocatori, squadre del dopolavoro, degli oratori, delle aziende e delle banche.
.. chi ci tocca stasera ? Ci sono i bancari. Allora non ci sono io ….
Le squadre delle banche erano le più temibili, non tanto per la qualità del gioco, quanto per la durezza degli interventi. I ”bancari” dei tornei estivi milanesi erano capaci delle più nefande scorrettezze, regolarmente impunite perché non c’erano arbitri della Federazione a dirigere il gioco.
Trovavi a volte ‘bancari’ di 40-45 anni, piccoli, calvi, ossuti e spigolosi.
Se nei pre-partita o nei primi minuti di gioco inquadravano un ragazzino particolarmente
veloce o dotato di un tiro preciso, alla prima occasione lo ‘marchiavano’ cinicamente.
Se il ‘ragazzino’ si azzardava ad entrare sotto canestro erano gomitate in testa o più sotto,
in zone molto sensibili. Se tirava da fuori erano ditate negli occhi.
L’unica salvezza era non giocare assolutamente mai nei tornei estivi della Milano di allora.
E se proprio ci giocavi, evitare i bancari. O fare al più presto i tuoi 5 falli
(delicati, però, per non farli arrabbiare) e salvarti in panchina.
Per qualche strano motivo conservo ancora oggi dopo 60 anni la stessa avversione per i bancari. E i bancari mi hanno fatto comunque molto più male dalle loro scrivanie che non sotto canestro. In campo almeno potevo ricambiare e non a caso un giornalista mi descrisse come “piccolo, ma cattivello”. Ho il ritaglio.
.. ai tempi che la squadra di casa portava i palloni per la partita.
Quella mattina di Gennaio giocavamo in casa, nel campo all’aperto del Centro Schuster, fondo in cemento, tabelloni di legno. All’ultimo allenamento io avevo ricevuto la reticella con dentro 5 palloni, quelli nuovi americani, a spicchi, da portare per la partita.
La notte nevicò, la mattina nevicò. Arrivai al campo. C’era la squadra avversaria, erano arrivati credo da Venegono con due pulmini. C’erano gli arbitri, uno per il referto e uno per il gioco. E c’ero io. Soltanto io. Della mia squadra nessuno si era mosso da casa. Nemmeno il coach. Oggi si sarebbe risolto tutto con un giro di telefonate. Ma allora nessuno ci pensò da casa e non esistevano i cellulari.
Era ovvio, per chi c’era, che se c’era la partita, si andava. Era ovvio, per chi non c’era, che se era nevicato non si andava. Il campo in cinque minuti fu spazzato : era perfetto. Giocammo tra di noi, compresi gli arbitri e il loro allenatore. Ci siamo anche divertiti.
La partita ovviamente ci fa data persa. Ma non fu nemmeno un gran problema : era il campionato in cui non ne avremmo poi vinta nemmeno una. Giocavamo molto bene, ma non difendevamo. Così non vincemmo mai, però il premio fu una bellissima lezione di vita. “Bisogna saper perdere” cantavano in quegli anni The Rokes.
… ai tempi in cui facevi il tifo per l’Ignis a pochi centimetri da Pagani, Gamba
e Rubini e loro non facevano una piega (né ti piegavano come un origami come pure avrebbero potuto se solo avessero voluto).
Tu, varesino, tifoso dell’Ignis, seguivi un’intera partita alla “Forza e Coraggio” di via Ripamonti, in piedi dietro alla panchina del Borletti o già Simmenthal.
Eri entrato gratis, come “giocatore”, mostrando il cartellino ufficiale, quello che prima di ogni partita il tuo allenatore consegna al “tavolo” per il referto.
E come “giocatore milanese” tu potevi sistemarti proprio dietro la panchina della squadra di Milano, pur essendo un tifoso varesino.
Avresti potuto appoggiare le mani sulle spalle di Riminucci, Romanutti, Pieri (appena arrivato da Trieste, il più classico ed elegante giocatore mai visto in Italia). Avresti potuto persino (però mai avresti osato) toccare sulle spalle Ricky Pagani e Gamba e Rubini. Tu tifavi per i tuoi e nessuno di loro si girò mai, nemmeno per darti un’occhiataccia. Che sarebbe stata meritatissima, ma a quei tempi non si usava.
.. ai tempi che arrivavano a Milano gli Harlem Globetrotters e un magico “bambinone”.
L’ultima mia ingloriosa apparizione fu al Palalido per una partita di apertura prima dell’esibizione degli Harlem Globetrotters. Subito prima di loro, in un campo che a noi che venivamo dal seminterrato della Casa dello Studente sembrava un grattacielo di legno e cristallo (il parquet e i tabelloni), con tribune alte e profonde come le navate di una cattedrale gotica, giocarono le giovanili del Borletti contro noi del CUS Milano.
Non ci fu proprio partita : da loro un bambino da solo segnò 81 punti. Era letteralmente immarcabile e non fu per noi, che pure giocammo molto bene i nostri palloni, una bella esperienza. Massimo Masini giocò poi nell’Olimpia e in Nazionale e fa parte oggi dell’Italia Basket Hall of Fame. Noi lo scoprimmo, a nostre spese, all’alba della sua gloriosa carriera : aveva 6 anni meno di me, ma era già 38 cm più alto.
.. ai tempi della “cucchiaia di legno” in tavola. No, il rugby non c’entra.
I miei genitori non si sono mai minimamente interessati alle mie imprese sportive. C’era però una regola casalinga che interferiva pesantemente con i miei successi nel basket agonistico. Le regola diceva : “Alle 7.30 in punto – cascasse il mondo – si deve essere tutti essere a tavola”.
Il papà aveva accanto alla tradizionali posate anche una lunga ‘cucchiaia di legno’, adibita, se necessario (ma non lo fu mai) a ‘punire’ comportamenti scorretti o bisticci tra fratello e sorella. Accanto a lui la mamma e di fronte ai genitori, io e la mia sorellina.
Al CUS Milano l’allenamento della squadra Juniores iniziava alle 6. Io ero già in palestra una o due ore prima, per allenarmi da solo o giocando con chi capitava. Pur di giocare si faceva di tutto : il “giro d’Italia” (che poi la NBA ci ha copiato col nome di “3-point-shootout”), partite uno-contro-uno e due-contro due e anche tre-contro-tre, giocando solo su metà campo. A volte capitavano giocatori della prima squadra, a volte studenti universitari di altre squadre, quasi sempre il mio inseparabile compagno di dai-e-vai e trucchetti vari Mario Accorrà.
L’allenamento della mia squadra iniziava alle 6 precise, alle 7 però io dovevo lasciare tutti e fiondarmi nello spogliatoio. Doccia non se ne parla, camicia pullover e d’inverno giaccone infilati direttamente su maglietta e braghe sudate, scale di corsa, attraverso l’atrio, giù per la scalinata che porta in strada.
.. ai tempi che chiedevo al ‘Manetta’ : Scusi, Capo : su che tram sono salito ?
Proprio aldilà della carreggiata c’era la fermata del tram. Due linee : il ‘23’ che arrivava giusto sotto casa e il ‘33’ che andava altrove. A quell’epoca sulla fiancata del tram non si vedeva che numero era. Perciò se correndo giù dalla scala io vedevo un tram con le portiere ancora aperte, mi ci fiondavo dentro. Poi una volta a bordo chiedevo al tranviere :
“Scusi, Capo : è il 23 o il 33 ?”.
Se era il 33 scendevo alla prima fermata, se era il 23 arrivavo a casa.
Tutto questo per rispettare la regola delle 7.30 in tavola. Regola assolutamente inviolabile
per me, che divenne però molto più elastica quando a ‘fare tardi’ fu mia sorella.
Ma Bruna era “la stellina d’oro” adorata da un padre meridionale. Grazie a lei mi pare di ricordare persino delle cene iniziate verso le 8 di sera. Ma ormai io non giocavo più.
.. ai tempi che “Tocchi il ferro ? Tocchi il cielo !”.
Arrivare a toccare il ferro per uno della mia statura era già segno di una buona elevazione. Proprio per questo ho sempre provato un senso di ribrezzo per le schiacciate
(‘slam dunk’, già il suono è odioso).
“Schiacciare’ vuol dire infilare il pallone dentro il canestro da ben sopra il ferro:
dall’alto in basso ! E’ per me una violenza inguardabile : uno stupro.
Così inguardabile che la NCAA (la NBA degli studenti USA)
proibì qualsiasi schiacciata dal 1967 al 1976. Giusto !
.. ai tempi che qualcuno a Bologna inventò il “gancio-cielo”.
Ai miei tempi il “lungo” della squadra – poi ‘centro’, poi ‘ pivot’ – sfruttava la sua superiore altezza inventandosi gesti molto eleganti.
Vidi Gigi Rapini e i suoi bellissimi “uncini”. Vidi Nino Calebotta,
che arrivò alla Virtus proprio dal mio CUS Milano e diventò “la Terza Torre di Bologna”.
Uncino che poi Jabbar avrebbe reso mitico : ‘sky hook’, “gancio-cielo”.
Per alzarci sopra ai ‘lunghi’ noi piccoletti avevamo l’elevazione e la capacità
di restare in aria un po’ più a lungo del difensore. Tu saltavi.. lui saltava;
lui ricadeva, ma tu eri ancora su per tirare senza opposizione.
Si narra di Herman Knowings, detto “l’elicottero” capace di restare
sospeso in aria un’eternità. Si narra e si vede e si calzano addirittura magiche scarpe –
Air Jordan – capaci di restare in aria per tempi incredibili.
Se le indossa Lui, però.
Questa era per me la palla a canestro : saltare ed elevarsi, sì; ma non stuprare
il canestro dall’alto in basso. Arrivare a toccare il cielo, non scenderci.
Oggi le schiacciate le fanno, le applaudono, le premiano allo Slam Dunk Contest.
Ma non io.
.. ai tempi che un ‘vecchietto’ di Varese faceva la sua discreta figura
sui più malfamati playground di New York.
Anni dopo aver abbandonato il basket agonistico, nel 1964, ho giocato dignitosamente
negli Stati Uniti – nei campus universitari della ‘Utah State University’ di Logan,
della ‘University of Utah’ di Salt Lake City e in alcuni playground di San Francisco
e poi New York.
Daniele Vecchi : “Alcuni playground americani sono diventati luoghi leggendari
dove i ballers dei quartieri newyorkesi si scontrano con stelle della NBA.
A New York si dice : “Giochi in NBA, ma non sei mai stato ‘battezzato’ sul campo del Rucker ? Allora non sei un vero giocatore“.
Francesco Zuppiroli : “Esiste un luogo dove gli Dei si recano per essere uomini normali.
Esiste un luogo dove i professionisti affermati della NBA sognano di emulare gli street ballers. Sì, esiste. All’incrocio tra la 155th Street e la 8th Avenue, nella città fatta di sogni
e di cemento, la città dove tutto sembra possibile, New York City.
Il bello è che qui spesso gli Dei… perdono.”
Hey man, this lidl Eyetalian from Liddle Idaly’s not bad !
Certo negli Stati Uniti del ’64, sotto quei canestri gli altri, tutti gli altri –
dai bimbetti di 8-9 anni agli allampanati spilungoni che potevano essere miei bisnonni –
tutti gli altri erano molto meglio di me.
Però ci stavano a giocare con me. Mi accettavano in squadra con loro, mi picchiavano con simpatica durezza, mi passavano la palla e sempre coglievano al volo i miei imprevedibili assist, mugolando approvazione.
Tutto merito dei ‘fondamentali’ di Tracuzzi, Ciccio Zucchi e Van Zandt,
a cui fui allora e tuttora sono immensamente grato.
Sono orgoglioso di ricordare che anch’io ho segnato qualche canestro nel paradiso,
non solo terrestre, ma cosmico del basket.
.. ai tempi, che ancora non sono giunti, dei campionati per noi “piccoletti”.
A proposito di partite giocate solo con coetanei, già allora pensavo a che meraviglia sarebbero partite giocate con limiti di statura. La pallacanestro in realtà non è uno sport sportivo. Come capitò a noi al Palalido di Milano, a parità di capacità tecnica, di capacità tattica e strategica e anche di culo (diciamo, fortuna o ‘mano calda’) non c’è partita per noi ‘nani’ contro giocatori oltre i due metri.
Forse a quelle altitudini ci può giocare un fuoriclasse ‘piccolo’, ma non esiste una squadra tutta di ‘piccoli’. Invece con un limite a 1,80, per esempio, ci sarebbero stupende partite dove giapponesi, filippini, e insomma … noi nani potremmo mostrare meraviglie. OK, la NBA è e resterebbe un altro mondo, ma noi ci si potrebbe divertire. Anzi, avremmo potuto divertirci, perché ormai alla mia età…..
9 e 27 : su qualsiasi ruota, in qualsiasi campo, di qualsiasi Universo.
Le diverse maglie con cui ho giocato – Pallacanestro Varese .. CUS Milano ..
la mitica “Terza E” del Berchet (tre campionati, tre scudetti) .. il Lamber Basket Club –
hanno avuto soltanto due numeri : il 9 e il 27.
“9” è il numero del mio destino : sono nato il 9 Aprile del 1939 e quello è il 99° giorno dell’anno.
“27” era il giorno dello stipendio.
A 17 anni, ancora studente, andare in Amministrazione e ritirare la busta-paga,
con il tuo nome stampato sopra, la distinta di paga e trattenute, gonfia per il cash dentro,
era un’emozione. Ti sentivi grande, ti sentivi ricco, soprattutto ti sentivi libero.
Questi due numeri – il 9 e il 27 – le squadre in cui ho giocato li hanno,
come si fa per le leggende del basket, ritirati ? No, non che io sappia.
Però mi sono ritirato io.
P.S.
Se mi capiterà di giocare ancora a pallacanestro, dovunque dovessi rinascere,
il 9 e il 27 sono prenotati. Chi di dovere prenda nota, per favore.
Ho scritto altri ricordi sulla pallacanestro.
Li trovi qui : www.francobellino.com
I link dei 3 articoli sono questi :
http://www.francobellino.com/?p=2903#more-2903
Il momento più bello della mia vita.
http://www.francobellino.com/?p=3274#more-3274
Chiacchiere da spogliatoio.
http://www.francobellino.com/?p=2068#more-2068
Franco Bellino, una leggenda del basket.
Ciao Franco,
Ho letto con piacere i tuoi ricordi che mi hanno fatto rivivere quel felice periodo di vita e basket a Bologna.
I tuoi ricordi di Varese, America, Bologna e Milano sono apprezzabili soprattutto da quelli che hanno giocato a basket
e capiscono tutte le difficoltà e la fatica, ma anche il piacere di questo stupendo sport.
Divertente l’aneddoto del tuo cesto alla Jordan che hai segnato facendo vincere partita e campionato.
Certi giocatori che citi li ho visti giocare personalmente a Bologna come Calebotta con i suoi uncini
e che si allenava in una palestra alla Borsa di Bologna,
oppure Riminucci che indossava le mitiche scarpette rosse, non c’erano ancora le Air Jordan,
e Pieri, triestino dallo stile elegantissimo, che ho visto al Palazzetto dello Sport di Bologna, appena inaugurato,
in occasione di un trofeo internazionale del 1956, vinto poi dalla Russia.
Per ora ti saluto e grazie ancora del tuo racconto.
Cordialmente
Vittorio e Catherine
Non sono mai stato appassionato di palla a canestro né di basket; in tutta la mia vita ho visto solo due partite.
Una amatoriale, qui a Lesmo, per vedere all’opera il mio amico Fabio Ritter. E l’altra nei tardi anni Novanta a Chicago,
per vedere all’opera Michael Jordan – in una amichevole contro non ricordo chi – fra un ritiro e l’altro.
In compenso sono stato su almeno due set a girare salti e palleggi: una volta in una palestra di Città del Messico
e l’altra in una stazione di servizio di Los Angeles.
A Città del Messico ho litigato col cliente e non ci siamo più parlati per due giorni:
lui si aspettava “un vero stadio da NBA pieno di spettatori” (giuro)
e non voleva credere alle promesse del producer, che giurava effetti spettacolari.
Aveva ragione il producer. Il capo dei capi (il cliente era Swatch) restò a bocca aperta su quella scena,
e continuava a chiedere “ma come avete fatto a girare una partita da NBA?”
Tu, comunque, sei una sorpresa per me. Non sapevo niente dei tuoi trascorsi sportivi.
Bravo.
Pasquale
ciao Franco, sapevo in parte le tue gesta cestistiche vissute agli inizi della conoscenza della palla a canestro.
I nomi dei giocatori da te citati – soprattutto quegli italiani – sono stati (insieme a te) gli eroi del nostro sport.
Devo dire che i numeri di maglia da te indossati il 9 e il 27, numeri particolari che quasi per un destino si ritengono fortunati,
si rapportano con il numero 9 che nella cabala del Palio corrisponde all’Oca.
Tu varesino ti dichiari tifoso dell’Ignis Varese, io senese della Simmenthal Milano.
Come regista però ho sempre tifato per il grande Ossola di Varese.
Scopro con grande piacere di essere amico di una persona con la quale mi è facile intendermi e volergli bene.
Franco carissimo, il tuo post è bellissimo, e non mi sono affatto annoiata nel leggerlo. Tutt’altro.
Devi sapere che per me il basket ha significato moltissimo. Non solo perché praticamente mi sono consumata giunture, tendini, ossature e quant’altro,
ma perché mi hai insegnato a vivere e a lottare. Per me è stata una palestra di vita.
La managerialità che applico nel mio lavoro non mi è arrivata dagli studi universitari: quelli sono tecnici.
L’esperienza sul campo, la fatica, la condivisione e, soprattutto, la visione,
mi hanno consentito di sviluppare una sensorialità e una sensibilità totalmente differenti.
Nella mia vita ho vinto uno scudetto, ero capitana della squadra in cui militavo.
Durante la finale ho subito una brutta frattura. Sono uscita due minuti prima della fine, e ho portato il gesso per due mesi.
Non ricordo così tante lacrime, tra gioia e dolore, quando sono andata a ritirare la coppa
con un braccio davvero messo male: campione d’Italia, Campionato Allieve, finali nazionali a Senigallia 1982.
A 16 anni ero tesserata in serie A, e lì ho giocato sino a 22 anni,
quando un incidente stradale dove ho riportato la frattura di tre vertebre
non mi ha consentito di proseguire un’attività agonistica così intensa.
Probabilmente avrei smesso comunque: gli studi universitari e una carriera completamente diversa
mi avrebbero portato lontano dai campi di gioco, all’epoca non si viveva certo di sport, soprattutto nel basket femminile.
Conservo di quell’epoca i miei ricordi più belli: da allora porto con me la lealtà e la generosità che solo un cestista può capire.
Quando ci vedremo ti racconterò altre cose, è strano ma in qualche modo questa situazione ci accomuna e ci rende molto affini.
Lo sostengo senza falsa modestia, è una cosa che continuo a predicare, soprattutto ai miei collaboratori:
chi gioca o ha giocato a pallacanestro è una persona intelligente.
E a questa affermazione in genere non ammetto repliche.
Immagino che tu sia completamente d’accordo.
Ti abbraccio, ho ancora un mucchio di lavoro da fare, e ho davvero desiderio di vacanza.
Buona serata,
Sara
Sara, sei un tesoro.
E se mai dovessimo giocare insieme,
o comunque sognare di giocare insieme,
tu sei di diritto
capitana e play e allenatrice in campo.
Io per me riservo un posto in panchina,
panchina che ho sempre aborrito “ai tempi”
e che raramente un allenatore mi ha proposto, anche solo per farmi riposare
(chi mai si “stancava” di giocare a quell’età!)
ma per te accetterei volentieri.
Scrive la professoressa Francesca Zucchi, figlia del mio primo amatissimo maestro e allenatore, Virginio ‘Ciccio’ Zucchi :
“Egregio Sig. Bellino, il papà non è per nulla telematico e ha quindi incaricato me di ringraziarla
e di farle sapere che il suo scritto è stato molto gradito. Mi scuso per il ritardo del riscontro e porgo cordiali saluti
Francesca Zucchi