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Gli oggetti parlano.

La maschera dice alla tigre :

E’ inutile che tu mi guardi.

Io ti guardo. Non ho più paura.

 

L’uomo con la maschera pensa :

Non è vero che io ti guardo.

Io non ti vedo. Io ho paura.

Però devo lavorare e voglio vivere.

 

La tigre pensa :

La preda mi ha visto e mi guarda.

Non posso sorprenderla. Caccio altrove.

 

La maschera parla alla tigre e salva la vita dell’uomo dopo-apertura

 

Nel West del Bengala e nell’Est dell’India gli uomini che vivono nei Sunderbans sono spesso preda delle tigri. Il Sunderbans è insieme un’immensa foresta ed una infinita laguna. Le tigri sono invisibili nella foresta e abilissime nuotatrici nella laguna.

 

tigre

 

In passato le tigri uccidevano tra 50 e 250 uomini ogni anno. Gli uomini pensarono di ingannare le tigri che attaccano sempre la loro preda da dietro.

Così crearono e poi indossarono una maschera sul retro della testa : una maschera che guardava alle spalle dell’uomo. La tigre guardava le spalle dell’uomo e si sentiva guardata dalla maschera, perciò non attaccava.

 

gruppo

 

L’idea era geniale e per un po’ di tempo ha funzionato.

 

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Purtroppo però capitò che una tigre, costretta ad attaccare comunque l’uomo che la guardava (la cui maschera la guardava) scoprì il trucco. Passò parola alle altre tigri e il trucco non funzionò più.

 

Ancora oggi a volte gli uomini indossano quelle maschere spaventa-tigri :

 

apertura

 

… ma soprattutto ora se proprio devono andare a raccogliere cibo nella foresta o a pescare nella laguna adottano mille precauzioni.

 

 

 

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Un incidente pericoloso con un animale l’ho avuto anch’io, poco più a Est dei Sunderbans, verso il Nepal.

No, non con una tigre : con un elefante.

Ero appollaiato in cima ad un elefante. Insieme a Giovanna. Noi due. Soli.

(Non ho foto dell’avventura perché ho sempre viaggiato senza una macchina fotografica e peraltro in quella situazione non c’era nessuno che potesse fotografarci. La situazione era comunque più o meno così :

 

su-elefante

 

Noi due soli su un elefante, aggrappati a delle grosse corde che teneva legato sulla schiena dell’elefante un materasso di tela ruvida. E noi due sopra. Soli.

 

Soli perché dopo averci sistemati lì sopra, il guidatore dell’elefante – ‘mahout’ o ‘cornac’, come nei romanzi di Salgari – era sceso e se ne era andato. Scomparso.

Perchè se ne era andato? Mai saputo.

Quando sarebbe tornto ? Nessuno lo sapeva.

Ma il tempo passava e la paura cresceva.

L’elefante con noi due sopra stava tranquillo, ma non  stavano tranquilli
gli altri elefanti nella foresta tutta intorno.

In quel Parco Nazionale ci sono decine di elefanti selvatici, assolutamente liberi :

 

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E poi ci sono 4-5 elefanti addomesticati, adibiti a portare i turisti alla scoperta dei misteri della giungla. Il fatto è che gli elefanti selvatici non amano gli elefanti ‘crumiri’ : pensano che non sia giusto che loro abbiano garantiti vitto e alloggio e bagni quotidiani e minuziose toilettature e dolcetti dai turisti, mentre loro no.
Così gli elefanti selvatici chiamano quelli addomesticati …

 

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… e li invitano a tornare in libertà, ad abbandonare la schiavitù e a riunirsi a loro. Dove ci sono anche le femmine.

A volte gli elefanti selvatici usano metodi piuttosto violenti per convincere i recidivi. E noi due eravamo proprio sopra un elefante che i selvatici volevano convincere, con le buone o con e cattive.

 

Il nostro elefante sentiva chiaramente i richiami, capiva chiaramente il messaggio e non c’era nessuno a fermarlo.
C’eravamo solo noi due, sopra di lui, terrorizzati.

 

Così decisi di parlargli.
Non avevo la macchina fotografica, ma avevo con me un librccino tascabile con delle frasi di conversazione. Quelle che ti servono per aver qualcosa da dire in qualsiasi occasione se tu vuoi far vedere che ti sforzi di parlare nella lingua dei locali. Cosa che in tutto il mondo tutti apprezzano moltissimo sempre.

 

Cominciai dalle prime pagine.

Con voce alta, molto calma però autorevole (così speravo) cominciai a dire all’elefante tutte le parole che si usano in questi casi.

Alcune frasi addirittura le avevo già imparate a memoria prima di partire :

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Dissi all’elefante :

Buon giorno. Buona sera. Buona notte. Buon viaggio.
Buon appetito. Il mio nome è Franco Bellino.
Il suo nome è Giovanna. Noi siamo Italiani.
Veniamo da Milano. Quanto costa ?

 

 

Gli dissi queste parole più volte, ricominciando sempre da capo, però gliele dicevo in nepalese :

 

Śubha prabhāta. Śubha sandhyā. Śubha rātrī. Śubha yātrā. Tapā’īm̐kō bhōjanakō majjā linuhōs.
Mērō nāma phrānkō bēlinō hō. Unakō nāma jiyōbhānā hō.
Hāmī iṭāliyana hauṁ. Hāmī milānabāṭa ā’ēkā hauṁ.
Kati kharca lāgcha?

 

 

Il tempo passava. I richiami degli elefanti selvatici si facevano sempre più forti e più vicini. Il guidatore dell’elefante non si vedeva, nessuno si vedeva : eravamo soli e l’elefante era libero di andare dove voleva se gli fosse venuta voglia di andare.

 

Sul mio manualetto di conversazone ero ormai arrivato al capitolo : “A tavola con i Nepalesi” :

 

Grazie di volerci ospitare.
No, grazie : non posso bere acqua.
Il vostro cibo è buonissimo. Lo abbiamo già digerito.

 

Io dicevo, scandendo bene le parole :

 

Hāmī du’ī hōsṭa garna cāhanu bha’ēkōmā dhan’yavāda.

Hō’ina, dhan’yavāda: Ma pānī pi’una sakdina.

Tapā’īṅkō khānā svādiṣṭa cha. Hāmīlē pahilē nai pacēkā chauṁ.

 

Non so se l’elefante capiva quello che gli dicevo, però certo lui sentiva che un uomo gli parlava con una voce tranquilla e un suono familiare.

Io gli parlai e l’elefante mi ascoltò.

 

Rimase tranquillo, sventolando delicatamente le orecchie,  alzando ogni tanto la proboscide, senza però mai toccarci. E soprattutto rimase fermo. Fermo fino a quando il suo guidatore riapparve.

 

Allora mi scatenai io.

Gli ordinai di farci scendere. L’elefante si chinò dolcemente e Giovanna ed io tornammo con i piedi per terra, dopo troppi minuti di terrore aggrapati a un materasso su un elefante libero di andare dove gli pareva.

 

E a quel punto, non in nepalese ma in italiano e in inglese e forse anche in milanese mi scatenai. Urlai tanti di quegli insulti all’indiano – adesso il terrorizzato era lui !!! – che persino il gigantesco elefante  e le tigri (che ci ascoltavano nascoste nel fitto della foresta) furono impressionati.
La cosa straordinaria fu che anche Giovanna gli fece una sfuriata di parolacce irriferibili in una lingua che non era inglese, né italiano, meno che mai nepalese, ma che il poveretto travolto dalle nostre urla furibonde comprese benissimo e, per quanto può impallidire un indiano, sbiancò.

 

In sintesi :
Le maschere anti-tigre raccontano una storia e salvano una vita.
La mia chiacchierata in nepalese all’elefante ha raccontato una storia e ha (forse) salvato due vite.

L’importante è avere sempre una storia da raccontare.

 

 

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