L’immagine è capovolta perché solo così – capovolta ! – Bhagirath, detto “Bhagiji”, il nostro cantastorie (“Kavariya Bhat”) la riconosce.
Per tutta la sua vita – anni e anni – “Bhagiji” ha visto capovolte
le immagini del suo “kavad”.
Vedendole diritte lui non avrebbe saputo riconoscere le figure
di cui sapeva, e spesso inventava, vita e miracoli.
Doveva guardarle dall’alto in basso, capovolte.
Solo così le riconosceva e le descriveva perfettamente.
Ma questa è solo l’ultima storia che il cantastorie “Bhagiji” mi ha raccontato.
La prima storia di Baghji, la prima nostra avventura, è stata trovarlo.
Negli anni tra il ’68 e il ’72 ho viaggiato lungo nel Rajasthan.
Con me c’era Giovanna e una guida esperta di arte popolare
che diventò di fatto mio ‘fratello’ : Ashiya. Studioso di folklore
e colto membro della nobile casta dei “Charan” del Rajasthan.
Ci abbiamo messo settimane di ricerche dall’alba al tramonto
nel deserto del Thar. Non cercavamo un oggetto :
cercavamo una persona.
Una persona molto difficile da trovare perché nemmeno sotto tortura avrebbe mai confessato di essere quello che era.
Ashiya Manvendra Singh, la nostra guida, interprete
e fratello adottivo, Giovanna ed io non cercavamo
un assassino, un ladro : cercavamo un cantastorie.
Il più famoso, il più ammirato, il più pagato di tutti.
Ma impossibile da trovare.
Gli abitanti dei villaggi visitati o i gruppi di nomadi incontrati
lungo le piste, volevano aiutarci. Sì, loro avevano sentito parlare
di un cantastorie. Sì, era passato anche da loro,
ma questo era successo tanto tempo fa.
Un’altra scoperta interessante fu che non solo l’interessato,
ma nemmeno i familiari di questi cantastorie avrebbero mai ammesso
in pubblico che il loro congiunto esercitava questa professione nomade.
E mai un cantastorie avrebbe recitato le sue storie nel suo villaggio.
Ma dopo giorni e giorni di vane ricerche, finalmente in una capanna trovammo un vecchio magrissimo e macilento che poteva essere lui :
Era molto vecchio, ormai si era ritirato dalla professione e non aveva assolutamente più il suo kavad. Altri due giorni di visite, qualche goloso regalo e un po’ di denaro infilato di nascosto nella sua tasca, lo convinsero a rivelarci un segreto : lui sapeva dove forse c’era un vero kavad.
In auto con lui partimmo per una ignota destinazione, dotati però di una piccola pala. Proprio sotto una montagnola di terra, uguale a mille altre identiche montagnole di terra, ci disse di scavare. Sotto un metro di sabbia apparve un grande involto di teli bianchi. Era il suo Kavad !
Per noi però era fondamentale non solo il kavad, ma soprattutto la sua lettura del kavad. Ci vollero altri argomenti convincenti (cash) e alla fine decise che sì, avrebbe recitato per noi l’intera storia.
Ma non l’avrebbe mai fatto nel suo villaggio : nessuno nel suo villaggio doveva sapere che lui era un cantastorie (figurati se non lo sapevano!).
Così abbiamo dovuto trovare un altro villaggio, lontano 19 km, dove lui ci avrebbbe letto il suo kavad. Ma l’altro villaggio era un accampamento di nomadi, quindi si spostava, quindi non era facile fissare un appuntamento proprio lì con il nostro cantastorie.
Anche perhè lui non sarebbe mai partito dal suo villaggio insieme a noi.
Ha voluto partire da solo, prima dell’alba come se partisse per un viaggio
per conto suo, con il suo kavad ben nascosto in un pacco voluminoso e da solo è arrivato al nostro appuntamento.
Così una mattina Ashiya portò prima Giovanna e me in un remoto accampamento di Rabari e lì ci lasciò. Infine tornò dopo circa 4 ore con il cantastorie. Disse che lo aveva incontrato “per caso” nel deserto, “Baghji” sempre per caso aveva con sé il suo antico kavad, e così lo aveva convinto a venire a fare il suo spettacolo proprio per noi.
Quando finamente “Baghji” è arrivato nell’accampamento dove noi da ore lo aspettavamo, quando religiosamente tolti i veli bianchi che lo nascondevano, quando finalmente è apparso nella sua bellezza ed esplosione di colori il suo kavad, quando ha iniziato ad aprire il primo sportello ed ha iniziato a cantare …….
… il “Gelosino” a pile che Ashiya si era noleggiato ad Udaipur non funzionava e non registrava nulla !
“Bhagiji”, ha fatto tutto lo spettacolo per noi, ma nessuno ha potuto registrare il suo racconto, di filmarlo nemmeno se ne parla, e abbiamo solo 3 (tre foto) del nostro mitico incontro.
Il suo kavad è ancora qui, tutto ancora imballato come lui ce l’ha consegnato perché l’idea sarebbe di fotografare l’apertura e filmare ogni singolo passo successivo.
E’ ancora avvolto in numerosi teli bianchi, accuratamente sigillato e con ancora infilata all’esterno l’immancabile e preziosa lunga penna di pavone che fino ad oggi nessuno ha osato toccare.
Nel mio progetto, con un fotografo e un operatore avremmo aperto e descritto, proprio come avveniva nella realtà, un pannello dopo l’altro fino all’apparizione del sacrario finale. Era un film, dove la successione di immagini era il video e la voce del cantastorie la colonna sonora. Nessun commento, nessuna voice-off : la pura splendida semplice verità.
Come prevedibile del mio libro e del mio film non se ne fece nulla.
Nessuno lo farà mai e il kavad è destinato a tornare dove è giusto che stia nel Rahjasthan, al “Bharatiya Lok Kala Mandal Museum” di Udaipur. Lì mio nipote Bapu e i suoi figli racconteranno la storia che qui racconto.
Oggi nelle botteghe di tutto il Rajasthan si trovano imitazioni di kavad, spesso miniaturizzate (costa meno farle, è più facile venderle e ci stanno nei bagagli). Sono vendute come souvenir a turisti che trovano bizzarre e deliziose queste scatolette di legno dipinte e con tanti sportellini semoventi.
I kavad in miniatura hanno lo stesso valore religioso e di documento folcoloristico che hanno le piccole Basiliche di San Pietro in gesso che compri sulle bancarelle a Roma o la “Madonnina” di plastica del Duomo di Milano.
Proprio perché per quasi 60 anni e attraverso 11 traslochi ho religiosamente rispettato la sacralità del mio kavad, non l’ho ho mai aperto né fotografato, tutte le foto a colori di queste pagine provengono del prezioso volume di Nina Sabnani ; “Kaavad Tradition of Rajasthan. A portable pilgrimage”
Niyogi Books 2014. Bellissima la dedica di Nina sul frontespizio :
“Dedicato a tutti i cantastorie del mondo che tessono i nostri sogni”.
Il vero kavad è grande e pesante, ha dei vetri a proteggere le immagini sacre e decine di ingegnosi sportelli che si aprono secondo una precisa successione e uno studiato mix di religione, mito, attualità e pettegolezzo.
Un vero kavad ed un vero “kavariya bhat” propongono (proponevano?) un racconto sorprendente, spettacolare e coinvolgente come un vero film.
Il kavad è proprio un cinematografo itinerante con tanti film incorporati, ciascuno su misura per un diverso pubblico. E c’è un solo produttore che investe denaro, tempo ed energie nella creazione dello spettacolo e nei viaggi per portarlo ai suoi pubblici che sono sparsi per un immenso deserto territorio. Quindi “Baghji” per tutta la vita giustamente incassava in moneta e in natura.
Sempre soltanto lui è ideatore, soggettista, sceneggiatore, regista ed attore con illimitata possibilità di allontanarsi dal testo originale e di darne liberissime intepretazioni.
Crea la storia, non una ma cento storie, le mette in scena, e interpreta,
con le loro diverse voci, tutti i protagonisti : l’eroe locale e le sue gesta,
gli Dei e le loro incredibili personificazioni, la storia e il mito.
Ma fa molto di più (“Dagospia” ante-litteram) : racconta l’attualità locale
di quel villaggio, così credibile e recente che suona nuova persino per gli abitanti che in quel villaggio ci vivono.
Ogni cantastorie riusciva infatti ad inserire nel proprio racconto fatti e aneddoti così recenti e così specifici per ogni specifica comunità,
che a volte persino i membri stessi di quella comunità non ne erano (o fingevano di non esserne) a conoscenza.
In più molto abilmente il catastorie dopo aver accennato a riferimenti alla vita dei presenti, interrompeva a metà lo svolgersi di un pettegolezzo appassionante. Aveva sete e chiedeva un te, si schiariva la voce, aveva una necessità non rimandabile, si prendeva una pausa.
Il cantastorie aveva anche già scoperto quello che oggi gli sceneggiatori di telenovelas chiamano “cliff-hanger” : appendi l’eroe in una situazione pericolosissima (cliff-hanger) e lì interrompi il tuo racconto.
Chi non vuole sapere come andrà a finire ?
Il nostro cantastorie la furbissima interruzione che ti lascia col cuore in sospeso sapientemente la usava senza aver mai visto non dico una telenovela, ma nemmeno un televisore.
Ovviamente durante la pausa gli interessati potevano anche convincere
il cantastorie a “dimenticarsi” alcune storie. E certe interruzioni suggerivano proprio ad eventuali interessati un intervento per eliminare o quanto meno attenuare la scandalosità di certe notizie. Bastava un cenno, il cantastorie capiva e la storia prendeva tutto un altro finale. Anche l’offerta finale però aumentava.
Nelle immagini di ogni kavad non mancano mai le testimonianze di signori che per essere stati molto generosi con il cantastorie, hanno vinto favolose fortune. Così come altre immagini mostrano personaggi troppo avari che hanno poi amaramente rimpianto di non avere gerosamente gratificato il cantastorie. “Vedi ? Per essere stato così avaro ha avuto delle tremende perdite di denaro. Peggio ancora ! una malattia incurabile ha fatto strage di tutte le sue bestie.”
Era così difficile trovare un vero cantasorie perché questi cantastorie, oltre alla fama di custodi della tradizione, dei miti e delle leggende della regione, oltre che sacerdoti di un tempio itinerante, avevano però anche fama di “contastorie”, spesso furfanti, a volte ladri, imbroglioni quanto basta.
Davanti ad ogni diverso gruppo di spettatori e per ogni specifica famiglia di “clienti” (protettori, mecenati, finanziatori) la strategia di comunicazione era ben chiara e ben strutturata : raccogliere adesso e subito più soldi possibile.
Soldi da inserire pudicamente (noblesse oblige : mai passaggio di denaro da mano a mano !) nell’apposito cassettino/sportellino che si apre alla base dei veri kaavad e che manca totalmente nelle imitazioni-souvenir.
Scoprimmo così, ma nemmeno sotto tortura (purché leggera) dirò mai la fonte, un particolare che manca in ogni narrazione, indiana o internazionale : questi Kavariya Bhat avevano anche fama di impenitenti donnaioli.
Motivo di più per negare di essere quello che era perché anche da quelle parti un marito cornuto e soprattutto un padre indignato è bene evitarli.
Pare che uno di loro, che aveva fama di irresitibile Don Giovanni, confessò e mostrò 27 “koti”: i classici boleri ricamati del Rajasthan, spledidamente ricamati e usati. Li aveva ricevuti in dono dalle fanciulle per le sue prestazioni.
Prestazioni di che tipo? Maldicenze di villaggio ? Probabile.
Con una punta di verità. Probabile.
Le due-tre foto di “Baghji”che ho pubblicato furono scattate di nascosto da Ashiya e come noti, si vede soltanto un vecchio dal viso bellissimo e dalla ancora apprezzabile agilità. Mai però si vede il suo kaavad.
Il kavad non è solo spettacolo : anzi, è soprattutto rito religioso. E’ chiamato anche ‘chalta-firta mandir’ (tempio che si muove).
E’ un altare di legno portatile, che come i nostri altari cristiani ha un tabernacolo centrale, ma prima di arrivare al tabernacolo dove risiedono le divinità, devi prima guardare e ascoltare le storie dipinte su decine di pannelli mobili che raccontano mille storie diverse.
Molti cicli pittorici del nostro medioevo (Assisi, Firenze, Padova) svolgevano la stessa funzione, raccontare le storie dell’Antico e Nuovo Testamento. Ma erano racconti statici e dovevi andare tu nella Chiesa dove un pittore le aveva dipinti. E poi dovevi sperare che qualcuno ti spiegasse le storie rappresentate. Di solito i genitori o un sacerdote.
Il kavad invece viene da te. Te lo porta a domicilio un sacerdote che ti racconta la storia di ogni pannello. E’ una bella differenza !
Il kavad è un tempio mobile : è il tempio che una volta all’anno va lui in pellegrinaggio a casa dei suoi fedeli anziché chiedere ai fedeli un pellegrinaggio al tempio.
Lo spettatore che segue la lettura di un kavad, dall’apertura del primo pannello fino alla scoperta del tabernacolo finale, in realtà sta compiendo un sacro pellegrinaggio, che può durare anche due-tre ore e che sicuramente gli porta benedizioni e benefici.
Ovviamente come ogni pellegrinaggio la lettura del kavad ha un prezzo : un’offerta doverosa, e se possibile generosa, al cantastorie.
Una cosa interessante del nostro incontro con il cantastorie fu la scoperta che lui se le guardava direttamente, di fronte a sé, non riconosceva le scene che pure da decenni descriveva.
Da sempre le aveva viste stando accosciato al suolo, reggendo il kavad in grembo davanti a sé ed aprendo via via i vari sportelli a favore del suo pubblico. Quindi aveva visto le varie figure sempre e soltanto dall’alto e a rovescio. Solo così adesso sapeva “vederle” e descriverle :
Forse per questo profondo rispetto per l’oggetto e per la sua magia, per la sua innegabile ‘aura’, forse perché sento Bapu mio erede, io progetto di donare al figlio di Ashiya, mio nipote adottivo Bapu, il kavad così a lungo cercato e faticosamente conquistato più di 40 anni fa.
Mi sembra giusto restituire questo oggetto a chi l’ha creato e per anni usato : là potrebbe tornare ad essere ancora vivo, qui no.